giovedì 11 febbraio 2010

A colazione

Quando gli occhi gli caddero sul giornale che sua moglie aveva lasciato sul tavolo, la mascella cominciò a tremargli, impercettibilmente ma irrefrenabile. Un pezzo della fetta di torta di mele che teneva in mano si staccò e cadde nella tazza del caffelatte, e un’esplosione di schizzi dipinse una nuvola di macchioline sulla camicia fresca di bucato. Non se ne accorse nemmeno. Gli occhi restavano puntati sul necrologio nel quale tre figlie, qualche genero, nipoti e bisnipoti piangevano la dipartita della cara Dorotea Mordenti, educatrice instancabile, spentasi serenamente a 97 anni dopo una vita spesa nell’amore per la famiglia e per la scuola. Fissava gli occhi della vecchietta nella piccola fotografia, occhi che parevano vivi, che prendevano vita, anzi, mentre quella faccia smagrita e raggrinzita si distendeva, si riempiva, tornava a colorarsi di quella terribile e indimenticabile tinta paonazza. Quegli occhi lo fissavano implacabili, mandavano saette minacciose di morte mentre la voce, quella voce stridula che in tanti anni non aveva mai potuto dimenticare, sillabava la sua condanna: «Allora, Bertozzi, aperta la quadra, aperta la tonda, due più x alla terza, chiusa la tonda al quadrato, per radice quadrata di sette dodicesimi meno, aperta la tonda, otto settimi alla meno due più… Bertozzi cosa fai lì come un salame? Muoviti Bertozzi, è facile. Ti ho messo un due il mese scorso, non ne vuoi mica un altro? Devo aspettare ancora per molto, Bertozzi? Muoviti!».

Bertozzi era atteso in consiglio di amministrazione, ma restava immobile sulla sedia. Pallido, guardava gli occhi teneramente sorridenti della cara Dorotea e anche adesso, come allora, si sentiva niente più che un verme; uno stupido, insulso, insignificante - e soprattutto ignorante verme.